venerdì 7 gennaio 2011

INTRODUZIONE a 'FORCIPE', la mia raccolta di versi dinamico-futurista.

NASCERE: PASSATISMO ESTREMO.

La poesia, prima di poter essere legittimamente definita tale, deve aver comprovato il suo valore per almeno qualche decennio. Prima, come sta scritto sul mio taccuino, non è che ‘UN GIOCO DI PAROLE COLATO / DENTRO UN FRULLATO DI ANIMO AFFETTATO  / E RICOMPOSTO D’UN FIATO’.

Come da intestazione la raccolta uscirà nel più prossimo, appunto, futuro.

Il mio libro in versi, ‘Forcipe’, pur sfiorando qua e là gli immancabili temi dell’amore e della morte, si concentra sulla Nascita,
Volendo inserirmi nei concetti più classici espressi nel Manifesto dei Futuristi del 1910, io assimilo la Nascita a un Museo: come Marinetti e compagni si ribellarono alle vecchie tele, le vecchie statue, i vecchi oggetti, considerati sudici, tarlati, corrosi, così io vedo, sento e definisco la Nascita nel 2010.
L’amore per il passato fu definito esattamente 100 anni fa con il termine ‘passatismo’, o ‘stucchismo’. Ebbene, esattamente cosi’ io definisco nei miei versi la Nascita (ovviamente senza intenderlo né volerlo durante i tre anni della loro stesura).
Riguardo alla Nascita io aggiungerei anche una bella desinenza alla sopracitata definizione futurista, chiamandola ‘paRAssitismo’… L’idea di stucchevolezza invece ci sta bene e ce la lascerei tale e quale...
Basta che citi il più annichilente dei versi usciti dalla mia matita ( non ricordo quel momento per fortuna, devo averne avuti di gran lunga migliori in effetti…) ‘IO MARCIO TORRENTE / LA MIA SORGENTE MONTE DI PECE / LA MIA FONTE SOFFICE FECE’: e qui, qualcosa di futuro e futuristico non è sospettabile nemmeno nella più spinta delle fantasie (ero evidentemente rinchiusa dentro a quei salutari dieci minuti di trapassato remoto così ‘rari e salutari’ nella di qualcuno esistenza…)
Sono dunque d’accordo con i vecchi e nuovi e futuri futuristi che urge, nell’arte e nella quotidianità, un’innovazione, uno scarto, un salto qualitativo che metta in soffitta definitivamente l’atto della Nascita, misterioso, inaccessibile, e utile certo ai fini conservativi ma ormai non più sufficiente per quelli evolutivi (‘EVOLUZIONE’). Qualcuno, io per prima, ravviserà ( assai… ) qui e là quei connotati di nostalgia e morbosità che il movimento futurista si proponeva invece di abolire tout court: ma io sento che  per la morbosità e la nostalgia ci si debba per forza passare perchè, oltre ad essere ingredienti indispensabili dell’ispirazione artistica (sennò di che scriveremmo a milioni nel mondo?), lo sono pure della vita e, ciò che più conta, della Rinascita: altrimenti il salto oltre la siepe, lo scarto dallo stato di ‘nascituro’ a quello di ‘uomo e donna di luce’, come ha detto qualcuno, di illuminato, cresciuto, cambiato, rinato, risvegliato, adulto, svolazzante essere fuori da quel bozzolo troppo spesso eterno che è la Nascita insomma, non avverrà mai.
Lo scavo del solco che allontana dalla Nascita conducendo alla Rinascita comporta necessariamente manifestazioni più o meno gravi di malattia dell’anima (disperazione, depressione, stress, le cosiddette ‘malattie mentali’ moderne, termine errato dato che con la mente fisica, cioè il cervello, esse non hanno nulla a che fare: io le chiamerei malattie natali piuttosto, giacchè sono insite nella nascita, trasmesse come inevitabili virus dai genitori, appunto coloro che hanno causato la nascita e le malattie natali connaturate ad essa fino a che ne sopraggiunga il superamento
( ‘MACCHIE DI SAPONE’ scritta in veste di figlia, e  ‘MURO VERDE’, scritta invece in veste di madre ).
Queste malattie dello spirito sappiamo prendono svariate moderne e antiche forme (‘AMANTI’; tranquilli: il tema è solo l’insonnia…).
Insomma lo stato di Nato secondo me va proprio scaricato, come un colore troppo acceso, esagerato, che acceca e cela i colori che stanno sotto, che sono quelli belli, che contano e formano il quadro. Ma sempre più spesso oggi questo processo è talmente lungo e faticoso da non avvenire mai. Vari e illustri pensatori hanno detto che non esiste altra strada per lasciarsi la nascita alle spalle, relegarla nel passato, e diventare quello che io chiamo  F.F.F. (Fighi Fautori del Futuro, proprio o altrui è abbastanza indifferente per l’Universo, le due cose equivalendosi), che l’attraversamento della selva oscura.
La cosa mi solleva perché alcune delle composizioni in versi del mio libro (‘BABY PARKING SEZIONE INNOCENTI: NIDO E COLONIA’) sono d’un passatismo sfrenato, svergognato. Sconsolato addirittura (‘SCIENZE NATURALI’).
Ciò nonostante gli sprazzi di luce ( ‘OCCHIO AI FUOCHI’, sgorgata dalla fiamma del camino riflessa nello sguardo dei miei figli), le pennellate futuriste sono intravedibili ( ‘EMICRANIA’ ), o presenti in potenza ( ‘MODI: DALL’INFINITO ALL’INDICATIVO’ ), e in alcuni componimenti chiaramente ravvisabili
( ‘LUCCIOLE’ ).
L’importante, dico a me stessa in questo libro come auto-incoraggiamento nei momenti di dubbio radicale e cinismo ( ‘LETARGIA O LETARGO’ ), è iniziare a tracciarlo quel solco, puntarlo senza darsi tregua verso una direzione ( ‘DOCCIA ESTIVA’ ), guardando anche a solchi vicini, magari imperfetti ma solchi, non righette leggere e pulite tracciate col gesso sull’asfalto del cortile d’un asilo (‘ TU SEI’ , riferita alla mia più cara amica). Dicevo: l’essenziale è iniziare a scavare il proprio solco verso una direzione altra dal punto di partenza, perchè poi esso si farà più profondo, e il risultato, il cambiamento,  prima o poi, a singhiozzo magari, ma in maniera irreversibile, si materializzeranno in un dinamismo vitale comparabile al movimento prodotto da 10, 20 gambe di cavallo di quel famoso dipinto futurista.
In senso figurato ( giacchè di pittura io non capisco nulla ), io vedo la Nascita come una linea, che da semplice segmento finito provvisto di una sola dimensione (la lunghezza), nel  Futurismo supera se stessa diventando forza centrifuga e centipetra: così come in esso tutti i colori, gli oggetti, i piani, si mescolano in una catena di contrasti simultanei dando vita a un ‘dinamismo universale’ a parecchie dimensioni, così io considero qui la Nascita: una semplice linea piatta, con un inizio e una fine. Sterile in prospettiva. ‘La nascita non basta!’ Io sembro urlare. Bisogna liberarsene, contrastarla, movimentarla, dinamicizzarla dall’interno per non farsi muovere dall’esterno ( dramma foriero d’ogni tragedia ).
E questo superamento è un imperativo categorico: a qualsiasi costo! Nonostante paia a tratti una missione impossibile ( ‘EQUILIBRIO’ ), o addirittura suicida
( ‘FORCIPE’, una delle mie ultime poesie in termini di tempo, quella che ha dato il titolo al libro, esprime proprio questa possibile potenziale, temutissima conseguenza e conclusione.).
E ciò vale in ogni campo. Per fare un altro esempio, la Lussuria è dinamica, il sentimentalismo è statico, diceva Valentine De Saint Point (donna di spicco del futurismo) nel suo trattato: non è la Lussuria che disgrega, dissolve e annichilisce, sosteneva, ma le complicazioni della sentimentalità, sinistri stracci romantici, margherite sfogliate, duetti stonati sotto la luna, tenerezze pesanti, violenze leggere, falsi pudori, ipocrite morali, paure estese come cancrene ( ‘AMOR TIMORE’ ), per cui ogni volta che le due istanze si trovano in contrasto, la Lussuria vince ( ‘VINI E WIENERS’, qui sì che c’è il sesso…. Al cui proposito, preciso a scanso di equivoci che, dove il verso recita ‘bastardo il marciapiede’ non si tratta di un’espressione metaforica, ma di un sidewalk molto fisico milanese dove è tradizione sedersi in fronte a un famoso bar d’estate a sorseggiarsi un drink ), e io credo non a causa della ‘natura matrigna’ Shopenhaueriana o Leopardiana per cui noi poveri umani siamo indotti da essa ad accoppiarci come ricci per la sua sussistenza, e neanche perché siamo porci cavernicoli antropologicamente determinati ad accoppiarci a oltranza, ma perché il dinamismo, e quindi la ‘Lussuria’, sono un BENE nell’Universo, mentre la staticità (cioè il sentimentalismo), che per viltà troppo spesso l’accompagna, sono un MALE. Certo bisogna riconoscere che il sentimentalismo, sinonimo di romanticismo, è sempre fecondo di ispirazioni artistiche ( anch’io c’ho il mio bell’esemplare del caso: ‘IN MEZZO A NOI’ ). Ma in termini evolutivo/ universali, ( non biologici ), io intendo la Lussuria come rock e il sentimentalismo come lento. (Di nuovo a scanso d’equivoci, qui non c’entra il piacere dannunziano, l’estetica versus la morale, l’edonismo e la ricerca sfrenata d’una bellezza).
Dicevo che la nascita è la linea, e sul suo necessario quanto ‘sporco’ percorso di metamorfosi da ‘linea’ a ‘forza’, ci sono sprazzi, squarci di luce in cui sentiamo di dover scalciare via il bozzolo della nascita, momenti in cui ci poniamo la domanda:
‘sono vivo o sono morto’? MA essa, la domanda, NON è affatto sufficiente per Rinascere davvero: bisogna agire sotto l’effetto di quel dubbio, altrimenti inerzia e staticità saranno i chiodi che sigillano la bara in cui già siamo sepolti, senza vita, cioè morti senza esserlo, che è peggio che esserlo davvero. Sempre dal punto di vista del ‘dinamismo universale’, ovviamente, perché i vermi invece la pensano diversamente...
A rischio d’esser presa per visionaria, secondo me quel dinamismo, l’’universale’, è più nobile e importante del ‘biologico’, altrimenti perché cavolo ci avrebbero/saremmo creati umani con una coscienza ad accompagnare l’istinto ( le due componenti della vera ‘opera d’arte’, che per essa s’intenda la vita, il sesso, un quadro, una poesia, una musica), invece che ennesima razza bovina da allevamento ? ).
C’è una poesia a cui sono affezionata particolarmente, ‘TROPICI’, molto futurista in questo senso: il dinamismo è cosa non solo buona e giusta, ma unica assoluta verità ‘spirituale’ che mi sia data di afferrare (‘ALTALENA A SEGA’).
E non perché me lo dice qualche mistico sufi o monaco zen, ma perché mi è così evidente. In tutto. La redenzione, ad esempio, è dinamica: che cosa c’è di più ‘religioso’ e commovente della redenzione ( ad esempio di un padre distante che decenni dopo il semi-gelo affettivo si trasforma in nonno caldo e generoso, ‘A PAPA’ ? ).
Concludendo, io non credo sia importante domandarci e soffermarci sul quanto tempo abbiamo avanti da vivere, paurosi e preoccupati per la morte, ma piuttosto su quanto tempo abbiamo vissuto dalla nostra Nascita, e ancor di più, QUALE tempo dalla nostra Rinascita: il momento in cui ci rendiamo conto di esserlo, vivi! ( ‘SMS DAVID HAPPY BIRTHDAY TO MYSELF’ E ‘SMS A ME’, mandati a due amici e poi inoltrati a me stessa grazie alla complicità d’una bottiglia di vinello scadente, sospetto...).
Alternative al diventare F.F.F. (Fighi Fautori del Futuro), all’accorgersi di esser vivi tra i vivi in un mondo vivo, non ce n’è, o meglio una c’è, ed è il limbo della paura
( ‘AMORMALE’ ), vera morte spirituale, stato anti-donna/uomo per eccellenza, nel quale si rischia di restare invischiati in secula seculorum amen.
Finirei questo exursus/prefazione con una poesie di farewell, adieu, adios allo stato di nato ( ‘AMACA’ ).
See you - anew - later!

giovedì 6 gennaio 2011

ARCANI

Luna, Luna.


Sono ora carne ammantata 
di saggezza e speranza
grazie alla forza universale
scesa su di me dalle stelle
per fecondare le terre

La luna oscura
riceve luce dal sole
e brillando riflessa
mi invita nella sua notte
magica di sonno e di sogno
sussurrandomi, assopita la mente,
i segreti dello spirito, misteri dell’animo.

Grazie a quel cielo stellato
sento il mio centro ed ogni armonia,
nessuna speranza mi è preclusa
e tutto ovunque mi splende.

Chiudo gli occhi e mi s’aprono le acque
della piscina lunare, liquido utero d’intuito
tesoro occulto da cui provengo
e che mi scorre eterno dentro.

La sua acida onda corrode la mia veste sporca
che ormai disciolta, nuda bianca e pura mi imbarca.

Come il gambero che vi nuota , a fondo e in superficie
io a ritroso mi muovo, mentre in avanti mi sospingo:
torno girino, scendendo nel mio abisso.

Grazie a quelle acque
come il serpente rinnova la pelle,
io perdo il mio vecchio guscio
e mi rivesto d’un nuovo.

Esco dall’acqua e sono due le strade
che mi si parano innanzi brade:
l’intuizione profonda o la separazione solitaria.

La prima, tesoro occultato, mi conduce al sole e all’Amore.
La seconda verso il caos totale e la follia mentale.

Ma quella stolta e infantile di follia!:
attaccata a paure e illusioni
come serrati paguri al lor solido scoglio.

Luna, luna, la tua faccia scura e quella nascosta
mi confonde le ombre e sfuma le sagome,
il tuo chiaror parassita mi mostra realtà inesistenti
o cela a me, lunatico, quelle presenti.

Luna, luna crudele, tu mi sospendi oltre la mente
ma ancora mi ci trattieni per lembi:
io rimango come monco nel mezzo d’una virtù passiva
che solamente mi grazia, di riflesso.

Luna luna santa, grazie a te ora so raccogliere la luce del cuore
per puntarla come accendino divino
ad illuminarmi il resto del cammino.


L'INNAMORATO.

Per la prima volta m' addentro
nel mio mondo cosciente

Volo incontro alle mie scelte
da ogni materia esente

Il mio polo accogliente s'unisce
al suo amante donante

Il mio volere si sprigiona
in azione potente
grazie al fuoco celeste
che mi si fonde al terrestre

Che fattisi sol cosa nella scelta
nella Verità mi germoglia.


LA PORTA

Le mie parole ti volteggiano attorno leggere come piume strappate che tu sbuffi e soffi lontano con grida o silenzi. 

Ma i miei significati, quelli, come puntine di freccia ti perforano ossa e tessuti. Penetrano fin dentro a quello spazio nascosto che serbi sigillato.
Avverti il pericolo, trema la tua porta
blindata
ignifuga
antipanico
corazzata
sotto i colpi del mio rostro che come il becco dritto d’un picchio scava buchi in una spessa corteccia per costruirvi il suo nido.
Come una quercia sferzata da un panico uragano, ti sradichi da terra trasferendo altrove le tue radici.
Esci sul portico, prendi aria, per scacciare il picchio e allontanarti dalla bufera.
Io ti inseguo, ritrovo il tuo ramo, mi ci poso e riprendo a picchiettare.
Il nostro tango riprende, siamo connessi nell’abbraccio frontale, ma quando sto per compiere l’ ’otto’, il cuore della danza, tu ti stacchi e svanisci.
Per ballare la verità bisogna essere in due, mentre tu mi lasci ancora una volta da sola sul lucido pavimento della pista sudata e inclinata.
La tua cassaforte ha resistito, i suoi codici ancora ignoti.

TED

Non mi farò mai più convincere da nessuno, 
Di fronte alla vita d’essere impotente 

Questa sarà la mia preghiera spirituale, 
da ripetermi come un mantra,
anzi meglio, da cantare come una canzone: 

La mia terapia elettro-convulsivante 
per ogni momento sconfortante. 

Tonalità in LA maggiore
e a seguire il minore, 

Ma forse la innalzo.

TERAPIA ELETTROCONVULSIVANTE PER DISANIMATE:

Mi hanno lavato via l’anima 
Prosciugato l’amore 
Vaso forato colmo d’un vuoto
Dal parto al declino, immutato

Lo sentivo
E non ne andavo fiera

Quale bontà’ io possegga?
Quale beltà’ io protegga?:
Dal ventre di quei bui vuoti e fori
Mi si affacciano fiammanti fiori

Ora li odoro
E ne vado fiera

Invento un nuovo codice
Di leggi senza giudice
Eleggo a re i miei dittatori
Grazie a voi sono, regina di fiori 

Ora li gusto
E ne vado fiera

Non serve dei loro soli
Partoriamo libere i girasoli
Guardiamola bene scorrere sul fiume
Quell’anima scivolata via, tra le schiume

La vedo
E ne vado fiera

'Quando scrivo, sono tutt'uno con la mia macchina, come a cavallo. E se c'è un errore, lei ha sempre ragione. Sono io in errore'

pubblicata da Magda Guia Cervesato il giorno domenica 8 agosto 2010 alle ore 13.58
A cavallo della RMC. Ha la sua età (fine 1800), ma va magnifica al passo

Lezione di vita e scrittura dal tipografo di città vecchia in Sanremo. La Heiselberg e la RMC sono estensioni del suo corpo. Batte sulla tastiera morbissima e alterna il rifornimento del motore a caldo con l'alzarsi di pistoni, leve e miriadi di gesti amorevoli, necessari. Mi sono un attimo persa nella spiegazione di matrici, positivi, negativi, vulcanizzazioni, caratteri base, spazi fisici etc, ma il concetto 'al pensiero corrisponde un'azione artigiana manuale' mi pare terapeutico. Il Pc ha provato a impararlo ed usarlo, ma dopo poco l'ha relegato in un angolo rivestito d' un bell'asciugamano bianco: astratto e mentale. Un cavallo zoppo.
Original Heidelberg. Il più 'moderno' dei due purosangue.
Crucca efficenza.
Al lavoro con la RMC
I caratteri fisici, da cui derivano quelli che usiamo tutti oggi sui nostri virtualmente zoppi Personali Cavalli
Timbri confezionati con la RMC. Durano in eterno. Materiale duro. Scaldato, poi raffreddato, poi ririscaldato, mi sembra d 'aver capito...
Personale Cavallo in eterna stalla
barretta base: costituisce il carattere più piccolo. (qualcuno mi corregga se dico castronate, che non ho preso appunti..:-)
1850-1960. 110 anni di onorata carriera, che continua sotto le mani esperte di pochi eletti
Uno spazio fisico

INCIPIT DAL ROMANZO 'T.S.O.' - Magda Guia Cervesato

Litigo col mio Uomo senza tregua, e nessun sonnifero è in grado di placare il mio intossicato sistema nervoso. Ogni settimana che passa il mio incubo s’aggrava. Mi sollevo a fatica scaraventando le gambe oltre il materasso,  ma ogni cellula al mio interno è tramortita da questa disumana veglia. Non resisterò un solo altro giorno. Lo sento.
Questo oggi è segnato dal destino: è il giorno della verità.
Ma per ballare la verità bisogna essere in due, mentre lui mi lascia ancora una volta da sola sul lucido pavimento della pista sudata e inclinata.

Ho perso, fallito di nuovo. Delusa, disillusa, non ho più nulla a cui restare aggrappata: persino il pensiero dei bambini in questo momento mi nega il suo conforto.
Vado a rintanarmi nel letto lunga distesa, braccia e gambe abbandonate lungo il corpo.
Persino la posizione fetale è troppo carica di un primordiale significato ormai anch’esso smarrito.
Le persiane della mia stanza tremano semiaperte all’aria che soffia dalla collina, prima di stendermi accendo il mio vecchio stereo di bambina sul tavolino accanto al letto.
Sento partire il De Andrè di ‘Tutti morimmo a stento’, track one ‘Il cantico dei drogati’. Premo il tasto del loop.
Ho licenziato Dio / gettato via un amore / per costruirmi il vuoto / nell'anima e nel cuore. Le parole che dico / non han più forma né accento / si trasformano i suoni / in un sordo lamento. / Mentre fra gli altri nudi / io striscio verso un fuoco / che illumina i fantasmi / di questo osceno giuoco.
Canto con un filo di voce impastato di lacrima.
L’orchestra esplode all’attacco di Come potrò dire a mia madre che ho paura, i singhiozzi mi salgono dal petto, e la bocca spalancata non fa in tempo a congedarne uno che quello in coda già preme per essere assorbito.
Chi mi riparlerà / di domani luminosi / dove i muti canteranno / e taceranno i noiosi / quando riascolterò / il vento tra le foglie / sussurrare i silenzi / che la sera raccoglie. / Io che non vedo più / che folletti di vetro / che mi spiano davanti / che mi ridono dietro. I polmoni scovano una sacca d’aria che investe le mie pliche vocali, così che esse prendono a vibrare all’unisono con quelle parole adagiate sugli strumenti.
La mia gola si piega come un arco che tende all’estremo la sua corda. La voce travolge il pianto, un grido animale mi si leva a straziare quella maledetta frase Come potrò dire a mia madre...
Le palpebre si scaraventano una contro l’altra in un abbraccio mortale, non riesco a scollarle, le ciglia si annodano saldate da un cemento liquido trasparente che fuoriesce dagli angoli degli occhi colando sugli zigomi, infradiciandomi le orecchie...che ho paura…che ho paura…risuona e risuona e risuona all’infinito, diventa un battito di tamburo, mi squarcia il cervello.
Le dighe dei condotti lacrimali sono incastrate su in alto, incapaci di sbarrare quella cataratta furiosa che tracima verso un livello inferiore.
I singhiozzi si succedono a ondate di pianto incontrollabili, a ogni sussulto sprofondo in un anello sempre più remoto d’un tunnel oscuro senza sbocco.
Dal basso ventre mi arriva un segnale: la vescica vuole liberarsi del frutto degli ultimi sorsi di acqua introdotti nel corpo.
Come faccio a raggiungere il bagno? Temo di cadere, svenire, battere la testa.
Sento il desiderio di pisciare come una lupa selvaggia. Lascio la vescica libera di espandersi e svuotarsi. Il flusso caldo si espande lento sotto di me. Provo un indefinibile piacere quasi sensuale. Sono vuota. Di desiderio e di sostanza. Non c’è più nulla ad ancorarmi a questa vita. L’urina penetra il materasso. Io evaporo con lei.
Seguo il viaggio di un’ultima goccia di liquido rotolarmi giù dai reni e scivolare via dentro gli uretri, come una sfera liquida che chiude un corteo di bimbi lanciati all’interno di uno scivolo acquatico tubolare. L’ultima forse.
Sprofondo dentro un distacco fisico e mentale scandito da singulti sempre più dilatati. Precipito cieca dentro un burrone orizzontale senza fondo.
E’ questo che prova il neonato? È così che nasciamo? Un centimetro alla volta, senza vedere lo sbocco sul mondo, travolti da spinte e contrazioni violente come elefanti intrappolati dentro il corpo d’un serpente che tenta invano di digerirci?
D’un tratto, senza avviso, tutto svanisce.
Il pianto cessa di colpo.
Il rettile mi ha espulso: sono fuori dalla sua bocca, spalancata alla sua massima dilatazione.
Allungo con fatica una mano sullo stereo. Lo spengo, e non subentra nessun silenzio: un cinguettare di uccelli entra con dolce prepotenza dal di là della finestra socchiusa.
Il loro suono irrompe nella stanza, ma non mi si infila per i timpani, non passa per quel senso d’udito. Mi è già dentro.
E’ una sinfonia di suoni che mi svolazzano dentro e attorno. Ma dentro e attorno non sono luoghi separati da confini fisici: sono un’unica cosa.
Non ci sono confini. La mia superficie, la mia linea corporea, sono come diluite in un liquido asciutto dove non ci sono risposte, perché nessuna domanda è, nè mai sarà: i miei pensieri sono tradotti simultaneamente in quella pre-lingua madre fatta di voci acute trasformate in suoni che mi uniscono agli uccelli.
Io sono come loro e loro sono me.
Il mio corpo si è disintegrato per essere riunito a quei voli in una luce morbida e cristallina.
Rimango in questo stato, minuti, ore, non ho idea. Forse solo secondi allungati a dismisura, il tempo è come fuso in questo spazio diffuso.

La luce che filtra dai vetri si fa più intensa, ma nel pezzetto di cielo azzurro visibile dal mio letto non c’è traccia dei colori del tramonto.
Sento un rumore, giro lenta gli occhi in direzione della porta. Vedo l’Uomo entrare cauto nella camera, forse, beata illusione, pensa che dormo.
Cerco di sollevarmi sui gomiti e mettermi a sedere sul letto. Incrociamo brevemente lo sguardo. Gli sorrido.
Si avvicina, mi chiede se ho dormito, rispondo neanche un minuto, ma sto bene.
Lo seguo giù per le scale, i miei passi sono lenti, come se fossi incredula di dover tornare a camminare dopo aver potuto volare.
Vado al rubinetto della cucina per prendere un bicchiere d’acqua, bevo una goccia dopo l’altra. L’Uomo mi esorta a ingoiare qualche chicco di riso bianco rimasto intoccato nella fondina dal mai consumato pranzo. Prelevo grumi di chicchi freddi e incollati con la punta della forchetta e me li infilo in bocca. Non c’è sapore, ma l’attrito del boccone contro le pareti della gola mentre passa lo scoglio della laringe strozzata non permette di ingoiarne più d’uno ogni lungo minuto.
Vorrei spiegare all’Uomo quello che è successo lassù nella mia camera, vorrei condividere con lui la beatitudine che mi pervade.
Cerco le parole, non ci riesco. Non sono in grado di descrivere nulla.
Cosa gli dico? Che ho provato una sensazione lucida di fusione dell’anima con il creato? Verrebbe da ridere a me, figuriamoci a lui.
Come potrò descriverla a qualcuno? Ne’ i sensi ne’ l’emozione, né gli occhi del cuore né quelli della testa mi vengono in aiuto. La parola è solo uno specchio appannato che non potrà mai riflettere le mie percezioni.
E allora taccio e sorrido.
Dopo qualche mezz’ora passata insieme in quello stato irreale, mi propone di portarmi in Ospedale, dice di temere che io stia male, sia disidratata, abbia un crollo di pressione, o sia vicina a un attacco di qualcosa.
Una voce dentro di me mi sussurra di non andare. Ma come spesso accade, cedo al suo volere. Continuo a sorridere, pervasa da una pace profonda mai, mai sperimenta prima. Mi vesto placida e mansueta. Entriamo in macchina con nostra figlia seduta sul seggiolino dietro.
Nel viaggio verso l’Ospedale avverto un preciso presagio: sto andando incontro alla mia croce. Ogni semaforo di paese e rotonda sulla statale mi pare una stazione della Via Crucis. Come Cristo le supero e accetto senza timore.
Non provo nessuna paura, quello che sarà di me sarà quello che è giusto sia. Lo dico all’Uomo. Lui mi guarda allibito, non c’è risposta.
Arriviamo, parcheggiamo di fronte all’Ospedale. Mi avvicino alla finestra dell’accettazione, per più di due ore attendo seduta su una sedia arancione che qualcuno mi chiami. Abbasso la testa, respiro, mi guardo intorno. Vedo l’Uomo e mia figlia entrare e uscire dall’ingresso.
Mi sento come in attesa di qualcosa.
Un aiuto, una condanna, ma qualcosa.
Sento chiamare il mio nome. Tocca a me.
Non ho la minima idea di quello che mi attende là dentro.

DONNE: NE’ TENERA CARNE DIVINA NE’ SCAGLIATO PESCE INTELLIGENTE.

Leggendo le struggenti pagine di ‘Una donna’, romanzo d’esordio di Sibilla Aleramo, pubblicato per la prima volta nel 1906, si capisce bene perché, un secolo dopo quei primi fermenti, il dibattito sulla ‘questione femminile’ sia ancora acceso come una fiamma che brucia inestinguibile dentro un bosco inaridito.

Scrittrici femministe, post-femministe e anti-femministe duellano sulle pagine dei giornali, mentre le donne si interrogano e lacerano ogni giorno alla ricerca di risposte definitive sulle loro identità, sulla loro bellezza da valorizzare, esporre o celare, sul dilemma dell’essere madri sacrificando parti di se stesse, in un’era non lontana da quando questo sacrificio era assoluto e totalizzante, e comportava una schiavitù fisica, materiale, psicologica, sessuale dallo sposo con cui avevano procreato.
Fantasmi senza diritti per la legge, le nostre nonne e bisnonne (mica lontane antenate senza volto) impazzivano per la mancanza di possibilità, condannate a vita dopo il matrimonio a un legame indissolubile che in cosi’ tanti casi, come la Aleramo ha descritto magnificamente, le conduceva su sentieri disperati: uccidersi, rassegnarsi ad essere oggetto di desiderio altrui a vita, o emanciparsi a costo di perdere i figli, erano sovente le uniche maledette scelte cui si trovavano innanzi.
Un secolo fa le donne incominciarono a domandarsi se non fosse arrivato il momento di spezzare il circolo vizioso d’esempio perdente e perpetuante quella misera condizione, generazione dopo generazione. Molte donne, come Sibilla, si allontanarono ‘volontariamente’ dai figli, scegliendo di abbandonarli nelle mani di mariti accecati di vendetta e giustificati dalla legge pur di insegnare loro il valore della libertà ed essere esempio vivente di dignità.

Gli scrittori maschi alternano commenti ironici a serie riflessioni rispetto alle enormi incongruenze ed incoerenze femminili, mentre gli uomini si barcamenano tra la vecchia perduta identità maschile e quella nuova ancora scarsamente elaborata e interiorizzata.

E’ stato scritto, giustamente, che l’indignazione per una lode a un grazioso decoltè letterario è ridicola da parte di alcune donne; che paragonata ai problemi della condizione femminile in molti paesi, possiamo rallegrarci di vivere in un paese dove questi e non altri ben peggiori sono i problemi.
Anch’io ho sorriso di quell’episodio, ho pensato che la bellezza di una donna, che sia essa casalinga, bancaria, avvocata, operaia, segretaria, cassiera, scrittrice, attrice o cantante, è una cosa talmente sacra a prescindere dal settore o dal mestiere a cui si accompagna (e sullo specifico: il corpo di un’autrice avrà pure a che a fare con la sua opera in qualche modo, giacchè in uno scritto confluisce inevitabilmente l’interezza di una persona, avvenenza o bruttezza percepite incluse ).
Ho pensato anch’io che l’indignarsi di alcune per questo episodio fosse non solo superfluo ma anche autolesionista, come l’azione di un commando di black-block incappucciati e armati di spranghe in testa a un corteo pacifista ( lasciando ad altra analisi se i disturbatori siano davvero fanatici distruttori o non piuttosto furbi infiltrati con la missione di screditare il movimento che fingono di difendere ).

Ma in realtà tutti e tutte dovremmo renderci conto che queste azioni e reazioni, multiple e scomposte, sono inevitabili, perché frutto di ferite fresche, ancora aperte ed infette; che queste riflessioni ( la mia inclusa ), provenienti da disparate parti e partiti, teste e testate, penne, saggi e romanzi, sono destinate a cadere nel nulla di fatto perché assomigliano a tanti areopalanini in panne avvitati su se stessi senza più motore né carburante. In caduta libera verso il vuoto.

E allora, perché scrivo queste parole da me stessa riconosciute come inutili in un’inutile bolgia? Semplicemente perché, come Sibilla grazie alle sue parole scritte sopravviveva, e tramite esse sentiva di mantenere intatto un rapporto con l’amato figlio dal cui abbraccio era stata crudelmente strappata, così io spero, forse mi illudo, ma non cesso di sperare, che le mie contorte riflessioni e tentativi di bozze, aiuteranno i miei figli, maschio e femmine, a comprendere le mie azioni, a perdonare i miei errori, a comprendere le mie lezioni, alleviando le necessarie pene che gli avranno causato. Ella non pretendeva fama, ma ascolto, dal bimbo e dalle persone che le stavano a cuore e che volevano e sapevano ascoltare. Misera, ed anche egoista illusione consolatrice, certo, ma quando si dispera per l’eventualità di non poter crescere accanto al proprio figlio, rimane quest’unico salvagente nel proprio orizzonte.

In fondo noi donne continuiamo a non capirci nulla su quello che dovremmo essere o non essere: da un lato percepiamo atavicamente l’urgenza, il fascino, la fierezza e anche ‘l’ utilita’ pratica di farci e mostrarci belle, dall’altro combattiamo questa nostra sacrosanta natura femminile allarmate della pericolosità di un ritorno all’essere considerate puri oggetti di carne e consumo.
E questo ci porta a una scissione il cui risultato è non riuscire a valorizzare pienamente né la bellezza né l’essenza. Cosa possiamo fare per uscire da questa nostra moderna terra di mezzo incuneata tra due sponde: la tenera carne divina e lo scagliato pesce intelligente?
Credo poco, a breve, perché se le misere devastanti scelte di vita delle nostre nonne ce le siamo in parte lasciate alle spalle grazie a nuove leggi e mutati venti, esse lavorano ancora fortemente nel nostro inconscio collettivo, come un trauma profondo e recente che sarebbe utopistico pensare di riuscire a superare in un battito di decenni.
E gli animi traumatizzati difficilmente agiscono in modo coerente: i fantasmi delle Sibille d’inizio secolo sono gli stessi fantasmi nostri di oggi.
Anche perché la mentalità del compagno che considera la donna suo possesso, e i figli usati come arma di ricatto, è ancora qui tra noi, viva e vegeta, e le conseguenze più estreme di tale mentalità si leggono ogni giorno in cronaca nera, nei verbali di Tribunali, nelle denuncie di Polizia e nelle cartelle cliniche degli Ospedali.
Come potrebbe questa somma di ricordo traumatico e di vissuto attuale favorire il superamento dei nostri incubi collettivi? Non può.
Forse solo un risveglio, una rinascita individuale, che ha tutti i connotati del miracolo più che dell’analisi razionale, e l’incontro fortunato con anime rare, maschili e femminili, capaci di adorarci per la nostra bellezza come s’adorano le statue in un museo e di non spaventarsi di fronte alla nostra caratteristica sensibilità, spesso definita, a torto o a ragione, superiore (e quindi anche soggetta a isterismo), intelligenza e creatività, possono salvarci dalla dissociazione e confusione.

Quindi noi donne, coscienti del nostro trauma, ammettiamo di comportarci in modo scoordinato, anzi, a volte, proprio di non sapere come accidenti comportarci. E vorremmo che per questo i nostri uomini, e gli scrittori che ne sono pubblica voce, ci rispettassero in misura doppia, quadrupla, e contassero fino a dieci prima di ironizzare ad ogni occasione seria o faceta perché noi non ci sappiamo decidere se quella lode galante ci indigna o ci garba.
Lo sappiamo bene noi madri, ammettiamolo, che alle nostre figlie, una volta raggiunta l’età del mestruo e delle forme sinuose, non sapremo cosa insegnare, e manderemo segnali contraddittori, perché quanto contraddittorie ci sentiamo noi ancora! ‘Ragazze, avete il diritto, come i vostri fratelli, di aver una vita sessuale libera’, dichiareremo, rimangiandoci segretamente ogni parola alla loro prima uscita con gli amici. ‘Ragazze, studiate e lavorate, prima di sposarvi e procreare, che altrimenti sarete sempre schiave di qualcuno e di voi stesse’, raccomanderemo, sperando intimamente che un giorno incontreranno un uomo degno di loro con cui conoscere la gioia di un amore rispettoso e di una maternità fonte di sacrificio umano, e non disumano.

Uomini, non godete segretamente, carichi d’un leggero sapore di dolce vendetta, di queste nostre difficoltà e dilemmi, intrinseci alla natura femminile, perché senza di essi, non saremmo donne, ma copioni di modelli maschili in pantalone gessato. Abbiamo sbagliato a volerci dichiarare uguali a voi durante le nostre lotte nei decenni passati, ma quelle lotte erano talmente necessarie che, come tutte le lotte purtroppo, non potevano non portarci a esagerare, a sparare all’amico come al nemico, a scambiare pari opportunità per pari essenza.
Sul campo sono rimaste vittime innocenti: la nostra femminilità e la vostra mascolinità.
Ci vuole tempo per riprendersi dalle guerre e dalle ferite, per reindirizzare gli obbiettivi e risettare gli equilibri, ma questo tempo di transizione si farà più lieve, e forse più breve, se donne e uomini ammetteranno con sincerità i propri errori e le proprie violenze senza rimestare in eterno nel torbido, senza rinfacciarsi quotidianamente i reciprochi errori, senza ironizzare superbamente sulla superiorità degli uni sugli altri. Senza riconoscimento delle altrui difficoltà, storiche e recenti, dei traumi subiti e perpetrati, non ci potrà essere perdono; e senza quello, si sa, null’altro di buono ne verrà.

Io alle figlie potrò solo trasmettere, con l’esempio più che con le parole, il valore di sè stesse, anima, testa e corpo, sentendomi regina dopo essermi sentita schiava, e potendomi poi sentire anche schiava, ma solo dopo essermi sentita regina. Che schiave felici e consapevoli dobbiamo imparare a diventarlo tutte, i discorsi sulla libertà assolutà sono futili e puerili, giacchè tutti siamo necessariamente schiavi di qualcosa nella nostra vita, e le donne che non accettano quest’idea combattono contro i mulini a vento. Come sarebbero altrimenti capaci di donare ai figli il proprio corpo, il proprio sonno, il proprio seno, i propri nervi, il proprio tempo, la propria infinita preoccupazione che inellutabile s’accompagna all’infinita estasi? Non potrebbero, e infatti le mamme moderne che non ce la fanno a gestire il rigore militare necessario a crescere dei bambini, sono figlie di questo mito della libertà cieca e sconfinata.
E come farebbero le donne a riconoscere tra tanti pretendenti che incontreranno, l’uomo valoroso a cui affidare sè stesse e i figli che concepiranno? Non potrebbero, perché dopo lavaggi del cervello materno-femministi sul demoniaco significato delle favole classiche in cui le principesse vissero felici e contente al castello, tirerebbero innanzi senza fermarsi, marciando orgogliose della propria mascolina attitudine all’indipendenza ad oltranza, come hooligan ubriachi che spaccano tutto e tutti, anche le teste dei tifosi della propria squadra. Affidare se stesse a un uomo giusto e probo non è un’eresia contro natura, non lo è mai stata e non lo sarà mai. Grazie alle Sibille disperate e coraggiose del passato possiamo oggi operare le nostre scelte un po’ più agilmente (sottolineo un po’), fino a raggiungere forse un giorno quell’obbiettivo ultimo e divino. Ma senza più rimuovere, ostinate come mule nate sterili, la nostra natura, il nostro destino, la nostra missione, e senza disseminare vittime sul nostro campo in nome d’un oltranzismo ignorante, datato e controproducente.
Solo agendo nel proprio piccolo giardino c’è speranza che altri fiori, uomini, figli e figlie, sboccino al suo interno a nuova fioritura, nel perdono e nell’amore.




“Per quanti giorni ho lottato conservando l’illusione di ottenere mio figlio?….La mia maternità s’era dunque chiusa veramente con quell’ultimo bacio?…Fu da allora che ripresi risolutamente a vivere; dopo aver sentito di nuovo gli altri vivere e soffrire.” (S. Aleramo)
Grazie a tutte le donne che hanno compiuto sacrifici estremi, per loro stesse, per la propria famiglia e per l’umanità futura, e la cui vita abbiamo l’onere e l’onore di onorare e celebrare imparando dai loro dubbi, errori e conquiste .

“In cielo e in terra, un perenne passaggio. E tutto si sovrappone, si confonde, e una cosa sola, su tutto, splende: la pace mia interiore, la mia sensazione costante d’essere nell’ordine, di potere in qualunque istante chiudere senza rimorso gli occhi per l’ultima volta”. (S. Aleramo)
Quale magnifica immagine d’una rinascita individuale senza cui qualsiasi ideale, conquista, battaglia, dibattito resteranno sempre vani, violenti, parziali e inconcludenti.