giovedì 6 gennaio 2011

INCIPIT DAL ROMANZO 'T.S.O.' - Magda Guia Cervesato

Litigo col mio Uomo senza tregua, e nessun sonnifero è in grado di placare il mio intossicato sistema nervoso. Ogni settimana che passa il mio incubo s’aggrava. Mi sollevo a fatica scaraventando le gambe oltre il materasso,  ma ogni cellula al mio interno è tramortita da questa disumana veglia. Non resisterò un solo altro giorno. Lo sento.
Questo oggi è segnato dal destino: è il giorno della verità.
Ma per ballare la verità bisogna essere in due, mentre lui mi lascia ancora una volta da sola sul lucido pavimento della pista sudata e inclinata.

Ho perso, fallito di nuovo. Delusa, disillusa, non ho più nulla a cui restare aggrappata: persino il pensiero dei bambini in questo momento mi nega il suo conforto.
Vado a rintanarmi nel letto lunga distesa, braccia e gambe abbandonate lungo il corpo.
Persino la posizione fetale è troppo carica di un primordiale significato ormai anch’esso smarrito.
Le persiane della mia stanza tremano semiaperte all’aria che soffia dalla collina, prima di stendermi accendo il mio vecchio stereo di bambina sul tavolino accanto al letto.
Sento partire il De Andrè di ‘Tutti morimmo a stento’, track one ‘Il cantico dei drogati’. Premo il tasto del loop.
Ho licenziato Dio / gettato via un amore / per costruirmi il vuoto / nell'anima e nel cuore. Le parole che dico / non han più forma né accento / si trasformano i suoni / in un sordo lamento. / Mentre fra gli altri nudi / io striscio verso un fuoco / che illumina i fantasmi / di questo osceno giuoco.
Canto con un filo di voce impastato di lacrima.
L’orchestra esplode all’attacco di Come potrò dire a mia madre che ho paura, i singhiozzi mi salgono dal petto, e la bocca spalancata non fa in tempo a congedarne uno che quello in coda già preme per essere assorbito.
Chi mi riparlerà / di domani luminosi / dove i muti canteranno / e taceranno i noiosi / quando riascolterò / il vento tra le foglie / sussurrare i silenzi / che la sera raccoglie. / Io che non vedo più / che folletti di vetro / che mi spiano davanti / che mi ridono dietro. I polmoni scovano una sacca d’aria che investe le mie pliche vocali, così che esse prendono a vibrare all’unisono con quelle parole adagiate sugli strumenti.
La mia gola si piega come un arco che tende all’estremo la sua corda. La voce travolge il pianto, un grido animale mi si leva a straziare quella maledetta frase Come potrò dire a mia madre...
Le palpebre si scaraventano una contro l’altra in un abbraccio mortale, non riesco a scollarle, le ciglia si annodano saldate da un cemento liquido trasparente che fuoriesce dagli angoli degli occhi colando sugli zigomi, infradiciandomi le orecchie...che ho paura…che ho paura…risuona e risuona e risuona all’infinito, diventa un battito di tamburo, mi squarcia il cervello.
Le dighe dei condotti lacrimali sono incastrate su in alto, incapaci di sbarrare quella cataratta furiosa che tracima verso un livello inferiore.
I singhiozzi si succedono a ondate di pianto incontrollabili, a ogni sussulto sprofondo in un anello sempre più remoto d’un tunnel oscuro senza sbocco.
Dal basso ventre mi arriva un segnale: la vescica vuole liberarsi del frutto degli ultimi sorsi di acqua introdotti nel corpo.
Come faccio a raggiungere il bagno? Temo di cadere, svenire, battere la testa.
Sento il desiderio di pisciare come una lupa selvaggia. Lascio la vescica libera di espandersi e svuotarsi. Il flusso caldo si espande lento sotto di me. Provo un indefinibile piacere quasi sensuale. Sono vuota. Di desiderio e di sostanza. Non c’è più nulla ad ancorarmi a questa vita. L’urina penetra il materasso. Io evaporo con lei.
Seguo il viaggio di un’ultima goccia di liquido rotolarmi giù dai reni e scivolare via dentro gli uretri, come una sfera liquida che chiude un corteo di bimbi lanciati all’interno di uno scivolo acquatico tubolare. L’ultima forse.
Sprofondo dentro un distacco fisico e mentale scandito da singulti sempre più dilatati. Precipito cieca dentro un burrone orizzontale senza fondo.
E’ questo che prova il neonato? È così che nasciamo? Un centimetro alla volta, senza vedere lo sbocco sul mondo, travolti da spinte e contrazioni violente come elefanti intrappolati dentro il corpo d’un serpente che tenta invano di digerirci?
D’un tratto, senza avviso, tutto svanisce.
Il pianto cessa di colpo.
Il rettile mi ha espulso: sono fuori dalla sua bocca, spalancata alla sua massima dilatazione.
Allungo con fatica una mano sullo stereo. Lo spengo, e non subentra nessun silenzio: un cinguettare di uccelli entra con dolce prepotenza dal di là della finestra socchiusa.
Il loro suono irrompe nella stanza, ma non mi si infila per i timpani, non passa per quel senso d’udito. Mi è già dentro.
E’ una sinfonia di suoni che mi svolazzano dentro e attorno. Ma dentro e attorno non sono luoghi separati da confini fisici: sono un’unica cosa.
Non ci sono confini. La mia superficie, la mia linea corporea, sono come diluite in un liquido asciutto dove non ci sono risposte, perché nessuna domanda è, nè mai sarà: i miei pensieri sono tradotti simultaneamente in quella pre-lingua madre fatta di voci acute trasformate in suoni che mi uniscono agli uccelli.
Io sono come loro e loro sono me.
Il mio corpo si è disintegrato per essere riunito a quei voli in una luce morbida e cristallina.
Rimango in questo stato, minuti, ore, non ho idea. Forse solo secondi allungati a dismisura, il tempo è come fuso in questo spazio diffuso.

La luce che filtra dai vetri si fa più intensa, ma nel pezzetto di cielo azzurro visibile dal mio letto non c’è traccia dei colori del tramonto.
Sento un rumore, giro lenta gli occhi in direzione della porta. Vedo l’Uomo entrare cauto nella camera, forse, beata illusione, pensa che dormo.
Cerco di sollevarmi sui gomiti e mettermi a sedere sul letto. Incrociamo brevemente lo sguardo. Gli sorrido.
Si avvicina, mi chiede se ho dormito, rispondo neanche un minuto, ma sto bene.
Lo seguo giù per le scale, i miei passi sono lenti, come se fossi incredula di dover tornare a camminare dopo aver potuto volare.
Vado al rubinetto della cucina per prendere un bicchiere d’acqua, bevo una goccia dopo l’altra. L’Uomo mi esorta a ingoiare qualche chicco di riso bianco rimasto intoccato nella fondina dal mai consumato pranzo. Prelevo grumi di chicchi freddi e incollati con la punta della forchetta e me li infilo in bocca. Non c’è sapore, ma l’attrito del boccone contro le pareti della gola mentre passa lo scoglio della laringe strozzata non permette di ingoiarne più d’uno ogni lungo minuto.
Vorrei spiegare all’Uomo quello che è successo lassù nella mia camera, vorrei condividere con lui la beatitudine che mi pervade.
Cerco le parole, non ci riesco. Non sono in grado di descrivere nulla.
Cosa gli dico? Che ho provato una sensazione lucida di fusione dell’anima con il creato? Verrebbe da ridere a me, figuriamoci a lui.
Come potrò descriverla a qualcuno? Ne’ i sensi ne’ l’emozione, né gli occhi del cuore né quelli della testa mi vengono in aiuto. La parola è solo uno specchio appannato che non potrà mai riflettere le mie percezioni.
E allora taccio e sorrido.
Dopo qualche mezz’ora passata insieme in quello stato irreale, mi propone di portarmi in Ospedale, dice di temere che io stia male, sia disidratata, abbia un crollo di pressione, o sia vicina a un attacco di qualcosa.
Una voce dentro di me mi sussurra di non andare. Ma come spesso accade, cedo al suo volere. Continuo a sorridere, pervasa da una pace profonda mai, mai sperimenta prima. Mi vesto placida e mansueta. Entriamo in macchina con nostra figlia seduta sul seggiolino dietro.
Nel viaggio verso l’Ospedale avverto un preciso presagio: sto andando incontro alla mia croce. Ogni semaforo di paese e rotonda sulla statale mi pare una stazione della Via Crucis. Come Cristo le supero e accetto senza timore.
Non provo nessuna paura, quello che sarà di me sarà quello che è giusto sia. Lo dico all’Uomo. Lui mi guarda allibito, non c’è risposta.
Arriviamo, parcheggiamo di fronte all’Ospedale. Mi avvicino alla finestra dell’accettazione, per più di due ore attendo seduta su una sedia arancione che qualcuno mi chiami. Abbasso la testa, respiro, mi guardo intorno. Vedo l’Uomo e mia figlia entrare e uscire dall’ingresso.
Mi sento come in attesa di qualcosa.
Un aiuto, una condanna, ma qualcosa.
Sento chiamare il mio nome. Tocca a me.
Non ho la minima idea di quello che mi attende là dentro.

1 commento:

  1. Forse potrebbe interessarti il testo pubblicato da Bertani nel 1984 ed ora disponibile integralmente a questo indirizzo:
    http://www.webalice.it/a.zinelli/tuttalastoria/vita/affittasi_anima/AFFITTASI_ANIMA.htm
    Lì trovi anche il mio indirizzo di posta elettronica.
    Ciao. Attilio Zinelli

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